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venerdì 25 novembre 2016

Alla scoperta del macabro a Roma: la cripta dei cappuccini in via veneto.

Siamo nel mese di novembre, periodo dedicato a visitare e a rendere omaggio ai nostri cari defunti. I romani, come è noto, non hanno una particolare fama di persone riflessive e profonde. A volte può persino spiazzare la loro mancanza di profondità, il loro lasciar correre, il loro ottuso non interrogarsi sull'esistenza. Eppure a Roma c'è una dimestichezza e familiarità con la morte che potrebbe regalarci qualche insperata "saggezza". 


Il pensiero della morte, prima ancora di incupirci, potrebbe restituire valore all'istante vissuto e ridimensionare tutte le innumerevoli pene superflue del quotidiano. Proprio per questo oggi, amici, voglio portarvi in un posto dove la vita e la morte s'incontrano.
Roma non è certamente una città particolarmente spaventosa, nonostante la sua millenaria storia abbia visto stragi e carneficine, tuttavia è ricca di luoghi oscuri e tenebrosi in grado di generare una vera inquietudine e nello stesso tempo una profonda riflessione sul significato di " sorella morte".


"Noi eravamo come voi e voi sarete come noi", recita la scritta che dà il benvenuto al visitatore nei pressi della Cripta dei Cappuccini, in via veneto 27. In questo angolo della città c'è la chiesa di Santa Maria Immacolata, la cui semplice facciata non fa certo presagire nulla di macabro. Ma scendendo nella sua cripta troviamo un cimitero del tutto particolare dove sono conservati più di 4000 ossa e teschi di cappuccini e non solo che sono state usate per realizzare candelabri, fioriere, altari e molti altri oggetti.


Il cimitero monumentale dei padri cappuccini è una tappa obbligata tra le bellezze fuori dal comune del turismo della capitale.
Questo luogo, che prima era il cimitero dei frati e delle persone povere della zona, fu trasformato in un'opera d'arte del XVIII secolo, quando, non essendoci più posto per le sepolture, si decise di utilizzare gli scheletri come tessere di un mosaico per recuperare spazio.


Oggi, in sei cappelle, si possono vedere scenografiche costruzioni, altari, lampadari, decorazioni murali, fatte con le ossa, nonché alcuni corpi mummificati con indosso le vesti tipiche dell'ordine, mentre il pavimento è ricoperto di terra proveniente da Gerusalemme.
La prima cappella è quella della resurrezione. Nella parete di fondo le varie componenti dello scheletro umano formano la cornice entro cui c'è una tela che rappresenta Gesù che risuscita l'amico Lazzaro.
La seconda è chiamata della messa, ed è l’unica a non essere decorata da ossa o da mummie. Qui si celebra la funzione in onore dei defunti.


La terza è chiamata dei teschi. Nel timpano della nicchia centrale campeggia una clessidra fatta con scapole alate per indicare lo scorrere del tempo. Nella parete di fondo sono disposti tre frati cappuccini in piedi, quasi in cammino, mentre lungo le pareti laterali due frati sono sdraiati in atteggiamento di riposo dentro nicchie curvilinee. Nel mezzo della volta ci sono tre elementi decorativi vistosi, in cui prevale la sfera ornata di fiori. Dalla volta del corridoio scende un lampadario da una stella ad otto punte.
La quarta è detta la Cappella dei bacini. Nelle pareti laterali due frati riposano adagiati sotto un arcosolio, mentre nella parete di fondo ci sono tre nicchie con dei cappuccini chini in avanti.
La quinta è quella delle tibie e dei femori: le pareti laterali presentano quattro vani per parete con dei cappuccini in piedi e vestiti con il saio.
La sesta e ultima è chiamata dei tre scheletri perché ci sono tre piccoli scheletri della famiglia Barberini, due dei quali si trovano sulla parete di fondo e sorreggono con una mano un cranio alato, mentre, sulla volta, al centro all'interno di una mandorla, simbolo della vita nascente, c'è uno scheletro sottile, quello della piccola principessa Barberini,. La piccola regge con la mano destra una falce simbolo della morte.

Se volete prenotare una visita visitate il mio sito web: www.guidaturisticacarlaciccozzi.it
Mi potete anche contattare su facebook: guida turistica carla ciccozzi
Oppure mi potete mandare una e-mail: levisitediacarla@gmail.com
Per avere tutte le info e il costo del biglietto visitate il sito: www.cappucciniviaveneto.it/
·         http://www.turismoroma.it/

Ciao al prossimo post

sabato 5 novembre 2016

Passeggiata semi-seria all'isola tiberina

Oggi è domenica, per fortuna non devo lavorare e posso godermi la giornata così come voglio senza orari e impegni. Decido di andare a fare un giro in bicicletta, le giornate ancora sono tiepide e il sole ci regala momenti estivi. Ovviamente non posso lasciare la mia cagnolina a casa: non me lo perdonerebbe mai.

Lilly ha il suo bel bauletto davanti al manubrio e appena le dico di uscire incomincia a fare mille feste di gioia e, quando vede la bici, salta subito scodinzolante al suo posto. Così ci mettiamo a pedalare e decidiamo di girare per le vie del centro storico che ad ogni angolo può nascondere una sorpresa: anche se non c'è nulla di speciale, se è solo un punto qualsiasi della città, un luogo anonimo di transito vale la pena soffermarsi un attimo c'è sempre da guardare. Ci dirigiamo verso il biondo Tevere dove c'è un'isola ancorata li da millenni come un bastimento che aspetta di salpare, l'acqua del porto che la sostiene racconta ogni giorno qualcosa di nuovo. Oggi andiamo a scoprire l'isola Tiberina e i suoi due ponti.

Mi viene voglia, allora, di continuarvi a raccontare dei primi ponti di Roma. Nel mio post del 17 febbraio vi ho parlato del Ponte Sublicio oggi invece dei ponti Fabricio e Cestio e della nave in mezzo al Tevere.

Dopo aver attraversato il ghetto giungiamo presso l'isola tiberina attraversando il Ponte Fabricio.

Le fonti storiche ci dicono che nel 192 a.C fu realizzato un ponte in legno e fu rimpiazzato solo nel 62 a. C. dalle due arcate in pietra, tufo e lastre di travertino. Quattro iscrizioni identiche, incise in lettere capitali sugli archivolti, tramandano il nome del curator viarum Lucio Fabricio che ne garantì anche il collaudo. Durante il Medioevo la denominazione di Ponte Fabricio fu sostituita con quella di ponte dei Giudei per la sua vicinanza al quartiere ebraico, successivamente fu chiamato anche Ponte dei Quattro Capi, a causa della coppia di pilastrini con erme quadricipiti, inserite nelle spallette dei parapetti.

Ed eccoci nel cuore dell'isola Tiberina lunga circa 270 m., e larga circa 70; in epoca antica permetteva agli uomini e alle bestie di passare dalla riva destra, quella etrusca, alla riva sinistra. Livio ci racconta a proposito della nascita di quest'isola una bellissima leggenda.

La plebe dopo aver cacciato Tarquinio il Superbo invadeva i campi appartenuti all'ultimo re, strappava le spighe bionde, le stringeva in saldi covoni e le gettava nel fiume.

Scarse erano le acque dell'estate e le messi copiose, non trascinate dalla corrente, formarono un grosso viluppo, il quale, cementato a poco a poco dal pattume e dal sopraggiungere di materiali vaganti, plasmò un'isola che dipoi la mano dell'uomo rese " solida e capace di sopportare templi e portici".

L'isola tiberina rappresenta nella storia urbana e sociale di Roma uno dei luoghi più ricchi di memorie, tanto da essere definita il centro di Roma. Da sempre ha costituito un punto nodale di relazione con la città al centro sia della vita economica, tramite l'arteria fluviale della Via Mercatoria, sia della vita religiosa e civile, grazie alla presenza di templi e poi di chiese, ordini religiosi e istituzioni assistenziali. Nonostante fosse situata non lontano dal centro della città, l'isola non ha mai avuto importanza nello sviluppo e nella storia di Roma, e fu adibita a ricovero degli infermi. Svetonio (Claud. 25) dice che sull'isola si lasciavano i malati che non si volevano tenere in casa, precisando che Claudio sancì che quei servi malati o cagionevoli che vi fossero stati lasciati da coloro che non volevano avere il fastidio dí curarli, divenissero immediatamente liberi e tali restassero anche dopo la guarigione.

Ancora oggi, come nell'antichità, l'isola era attraversata da un'unica strada, il vicus censorii, che serviva per collegare i due ponti e, quindi, le due rive del fiume; la denominazione Censori potrebbe riferirsi ad un Censorius altrimenti sconosciuto. Nell'area centrale ci doveva essere una sorta di albero maestro, rappresentato, in origine, da un obelisco, andato perduto e sostituito dalla cosiddetta " colonna infame" sulla quale veniva affissa una tabella in cui erano indicati i " banditi che nel giorno di Pasqua non partecipavano alla messa eucaristica".

Verso la metà dell'800 la colonna infame è stata sostituita da un monumento con le statue dei santi Bartolomeo, Francesco d'Assisi, Paolino da Nola e Giovanni di Dio.

Dietro questo monumento oggi sorge la chiesa di San Bartolomeo mentre in epoca romana, il tempio dedicato al Dio della medicina Esculapio.

Nel 293 a Roma scoppiò una terribile pestilenza e invano gli abitanti supplicarono gli dei della Città di placare il flagello. Alla fine, a seguito di un imperioso oracolo dei Libri sibillini, i romani si recarono in Grecia per domandare la protezione di Esculapio, che lì era assai venerato. Mentre i pellegrini offrivano i loro sacrifici, dalla terra del sacro luogo usci un serpente che immediatamente si nascose sulla nave romana; la delegazione capì che sotto forma di questo animale si era manifestato loro il Dio e così i romani incominciarono a ritornare verso l’Urbe.

Ovidio, nel libro delle metamorfosi, ci racconta che la nave, dopo essere arrivata ad Ostia, risalì il Tevere, ma una volta giunta nei pressi dell'isola, il serpente balzò rapido dal legno, guizzò fra le acque e si nascose su di essa.

La volontà del dio era evidente: in quel posto bisognava costruire un tempio a lui dedicato. A partire da quel momento, tutta l'isola fu lavorata in modo tale da raffigurare una nave.

D'altra parte un dio straniero poteva prendere stanza solo in una terra situata fuori del pomerio; è tale era l'Isola: il serpente non si era ingannato.....

Un dio della medicina, poi, non poteva non ravvisare nell'isola la più autentica e più comoda zona d'isolamento, collegata con i centri più affollati della città. Pomponio Festo attesta:" nell'isola fu costruito un tempio a Esculapio, dove gli infermi si curavano dai medici particolarmente con l'acqua"

Il tempio venne inaugurato il primo gennaio del 289 a.C.

Ma non era il solo, ce n'erano altri:

quello di Semo Sanctus, delle divinità sabine del Quirinale, dì Bellona detta Insulensis e di Igea compagna di Esculapio, quello di Teleforo, piccolo nume incappucciato di origine anatolica, che si aggiunse un secondo momento alla coppia divina di Igea e di Esculapio, quello del Dio Tiberino festeggiato insieme a Gaia l'8 dicembre. C’erano, inoltre, quello di Fauno costruito nel 196 a. C., quasi un secolo dopo la costruzione del tempio di Esculapio, e quello di Veiove. Appena due anni dopo, nel 194 a.C., verso la parte centrale dell'isola fu costruito il tempio dedicato a Giove Giugario cioè Giove nella veste di divinità garante dei giuramenti. Sulla base di un passo di Ovidio, l'edificio veniva generalmente ubicato nella zona del moderno ospedale, non lontano dal complesso di Esculapio. La conferma dell'esattezza di tale menzione è venuta nel 1854, quando al di sotto della chiesa di San Giovanni calibita è stato rinvenuto un tratto di pavimento in signino con un'iscrizione dedicatoria a Giove Giurario.

Oggi sull'isola possiamo ammirare una torre difensiva della famiglia Pierleoni, poi Caetani e, tra i mattoncini che costituiscono la torre, è possibile scorgere la testa in marmo di una fanciulla databile al I sec., tanto che questa struttura difensiva è chiamata anche “la torre della Pulzella”.

Poi ci sono due importanti chiese: San Bartolomeo e San Giovanni Calibita.


La cosiddetta epoca dei papi portò con sé nuovi e importanti cambiamenti tra cui l’ampliamento del piccolo ricovero per poveri ed ammalati: ben presto venne trasformato infatti in uno degli ospedali più efficienti dell’epoca, grazie all'instancabile lavoro dei frati di San Giovanni di Dio, meglio conosciuti come Fatebenefratelli, dalla caratteristica frase che amavano ripetere al popolo durante i loro giri per la questua.

Un’altra interessante curiosità è legata alla Madonna della Lampada, così chiamata per la presenza di una lampada costantemente accesa in segno di devozione, la cui effige si può oggi ammirare nella chiesa di San Giovanni Calibita e una sua fedele copia sul muro esterno di questa. Si racconta che molti anni fa, durante una terribile piena, il Tevere arrivò a sommergere quasi totalmente l’Isola e l’immagine sacra stessa ma, con gran stupore di tutti, una volta che le acque si ritirarono, si constatò che la fiamma della lampada non solo non si era spenta, ma anzi brillava ancora più vivida e fulgente.

L’Isola è anche famosa per aver accolto in epoche più recenti molti ebrei che cercavano rifugio dagli attacchi dei nazifascisti: è per questo che oggi qui sorge l’ospedale israelitico, simbolicamente vicino al famoso e terribile ghetto ebraico.

Non vi sono quasi più abitazioni private sull'Isola, ma alcuni interessanti negozi come una farmacia, un bar, una gelateria e lo storico ristorante romanesco “La Sora Lella” aperto dalla grande attrice Elena Fabrizi e oggi gestito dai suoi figli e nipoti.

Ma la cosa più bella è scendere a passeggiare sullo zoccolo bianco che gira tutt'intorno, sfiorato dalla corrente. Ora l'acqua del fiume é scarsa e l'isola pare arenata in una malinconia. È un buon posto per sedersi e riflettere su tutto e sul niente, allora mi metto in braccio Lilly lasciando che il vento ci accarezzi e ci scompigli i pensieri. Dopo esserci goduta questa pausa meravigliosa risaliamo per riprendere la strada del ritorno e così riprendiamo la nostra bici e attraversiamo il secondo ponte per lasciarci alla spalle l'isola per rientrare a casa.

Il ponte Cestio fu costruito per unire l'isola con Trastevere dal magistrato L. Cestio nel 46 a.C. Dopo un restauro del 152 d. C. Subì un totale rifacimento nel 370 d. C. con l'impiego di blocchi di travertino dell'ordine inferiore, quello dorico, del teatro di Marcello. Il restauro fu ordinato dagli imperatori Valente e Graziano nel 365 d. C., come ricorda l'iscrizione che ancora possiamo leggere nel parapetto nord. Alla fine del 1800 furono compiuti dei restauri e delle sostanziali modifiche e fu allungato.

Questi due ponti compongono un gruppo architettonico e pittorico con la nave di Esculapio.

Se vi è venuta voglia di visitare quest'isola il momento migliore è farlo all'alba quando la città si sta lentamente risvegliano o al tramonto quando il sole sembra baciare le mille cupole che da qui si vedono.

Ciao al prossimo post










venerdì 16 settembre 2016

La "grattachecca"

La grattachecca
Come si fa a rinfrescarsi nelle afose serate romane come questa di oggi? Ho una gran voglia di andare lungotevere a mangiare una gratta checca. Decido, allora, di chiamare Walter che, oltre ad essere uno dei più cari amici che ho qui a Roma è anche un bis collega, archeologo e neo guida turistica. lo conosco da una vita e con lui ci si diverte sempre molto, è un vero comico. Appena lo chiamo mi dice subito di sì e decidiamo di incontrarci presso il ponte Cestio dove c'è il chiosco di Sora Mirella che è da lì dal 1915 ed è il secondo più vecchio di Roma (l'altro è alla fonte d'oro che fu aperto nel 1912). Io, fedele alla tradizione di questo luogo decido di prendere una grattachecca al limone mentre Walter quella all'amarena. La mia è deliziosa e anche Walter per la sua ha il mio stesso pensiero. Ci mettiamo seduti sui muraglioni del lungotevere con le gambe penzoloni e incominciamo a ridere e a sorseggiare questa bevanda fantastica guardando il Tevere che placido scorre.
Io, da aquilana, non so cosa sia la grattachecca ed incuriosita, chiedo al mio amico di raccontarmi la storia di questa bevanda rinfrescante e lui mi svela che risale al periodo in cui non c'erano né freezer né frigoriferi e così per mantenere freschi gli alimenti venivano utilizzati grossi blocchi di ghiaccio detti "checca". In diversi chioschi romani ancora si gratta il ghiaccio come si faceva un tempo e come ha fatto il chiosco dove abbiamo preso le nostre. Il ghiaccio viene grattato con un raschietto e messo dentro un bicchiere dove manualmente viene schiacciato e poi si aggiunge lo sciroppo del gusto scelto.
Walter mi dice che La grattachecca fa la sua comparsa a Roma nel 1891 quando ci fu l'estate più calda di quel secolo e i primi chioschi nascono nei quartieri di Trastevere e sono per l'epoca la versione popolare e più economica del dessert da passeggio, in contrapposizione ai costosi gelati, destinati ad una clientela formata da piccola e alta borghesia.
La sua origine in realtà bisogna ricercarla, come sempre, tra le aride montagne abruzzesi. Se non ci fossero stati gli abruzzesi Roma cosa sarebbe stata? Mah! All'epoca in molti borghi abruzzesi soprattutto tra Secinaro e Opi era comune il mestiere di neviero. Si saliv apiedia in cima alle montagne dove c'erano ancora i ghiacciai, si tagliava un blocco di ghiaccio, lo si riportava a valle a dorso di un asino, lo si caricava su un carro, e coperto da un alto strato di paglia isolante, lo si portava nelle grandi città vicine.
Ancora oggi è possibile visitare il luogo dove i nevieri tagliavano grossi i grossi blocchi di ghiaccio. La neviera si conserva ancora nei pressi di Secinaro. la passeggiata è un po' impegnativa ma in compagnia di alcune guide del posto ci potete arrivare facilmente. .
L'economia di questi paesi era proprio sostenuta da questa attività. Con il passare del tempo alcuni cavatori di ghiaccio hanno iniziato a vendere nella Capitale questo prodotto, che avuto un grande successo.
Quanti chioschi ci sono ancora a Roma dove poter gustare una buona grattachecca? Walter mi dice che ce ne sono almeno 9. I primi due li abbiamo già citati poi c'è quello a piazza Buenos Aires, che essendo vicino casa avevo già assaggiato e devo dire che è veramente buono, poi c'è quello di Fatamorgana in via Roma libera 11, poi c'è il chiosco di Testaccio in via G. Branca , poi c'è Sora Maria in via trionfale nel quartiere Prati angolo con via Talesio, poi Sora Lella in via Porta cavalleggeri, er chioschetto in via magna Grecia, l'urto in via del porto fluviale.
Quindi cari amici non vi resta che andare a passeggio sorseggiando questa bevanda e l'estate vi sembrerà meno afosa di quella che in realtà è. E se decidete di andare ad uno di quelli posti lungotevere, vi farà compagnia il biondo fiume e le cupole della città eterna che comunque vi regalano sempre uno spettacolo mozzafiato.
Ciao al prossimo post!


















mercoledì 17 febbraio 2016

Sulle tracce del ponte sublicio

Appena mi sono svegliata ho aperto la finestra e ho visto che c’è un sole stupendo e la temperatura è piacevole. Proprio la giornata ideale per fare una passeggiata alla scoperta dei vicoli di Roma, ricchi di storie e leggende. Dopo una bella colazione composta da una spremuta di limone con tisana di zenzero, chiodi di garofano e cannella e una bella tazza di caffè americano accompagnata dai miei mitici pancakes, mi vesto e decido di andare a vedere il luogo dove doveva sorgere il primo ponte romano, il Sublicio, ponte carico di leggende e di storia. Da oggi in poi ad accompagnarmi in queste passeggiate ci sarà, oltre alla mia macchinetta fotografica, una Canon, regalatami nel 2008 da mio fratello per farsi perdonare il fatto di aver perso la mia durante una sua gita in montagna, la mia favolosa Lilly una cagnolina di 3 mesi e mezzo che dal 14 dicembre del 2015 vive con me. L’ho presa presso il canile municipale de L’Aquila. E’ una monella incredibile ma adora camminare e perdersi per i vicoli della città eterna. E’ proprio la degna cagnolina di un’archeologa! Per arrivare in centro, come ormai faccio ogni domenica, prendo la mitica cinquecento rossa di Enjoy e mi dirigo alla volta di via del Porto, all'estremità settentrionale del complesso di San Michele a Ripa, nel cuore del quartiere Trastevere, a cui dedicherò una pagina a parte. Proprio in questa via, secondo Carandini ed altri archeologi, sorgeva il primo ponte romano il Sublicio di cui, però, oggi non resta più alcuna traccia perché i suoi resti furono distrutti nel 1887 per la costruzione dei muraglioni del fiume. Tuttavia, affacciandosi dalla spalletta del ponte, verso Ripa grande, di fronte al luogo dove sorgeva il porto di Ripa, si possono notare ancora sporadici resti. Questo, come quasi sempre nellarcheologia, non lo possiamo affermare con assoluta certezza, in quanto non ci è giunto nulla che possa indicare la sua esatta ubicazione ma quasi certamente doveva trovarsi in questa zona, nelle immediate vicinanze del pons Aemilius. Nel De Regionibus Urbis Romae, detto di Sextus Rufus, nel momento in cui si parla della undicesima regione urbana dice: Salinae, porta Trigemina, Aedes Portumni ad pontem Sublicium, quindi, il santuario di Portunus può essere localizzato in rapporto con il ponte Sublicio. Il luogo dove sorge il foro Boario in età romana offriva tanti vantaggi ed era facilmente controllabile dal Palatino e permetteva di raggiungere questo colle molto facilmente senza dover attraversare i fiumiciattoli dai bordi fangosi che vi scorrevano prima della costruzione delle cloache Maxima e circi Maximi. Le due strade più antiche di questa zona, il vicus Tuscus e le Scalae Caci convergevano in questo punto; la prima poteva essere attraversata dai carri mentre la seconda solo dai pedoni e dalle bestie da soma. Il Tevere assume lentamente la funzione di riferimento ideale e di testimone delle mutazioni e dei processi trasformativi che si svolgono sulle sue sponde, equilibrando e traversando, da una riva all'altra, dinamiche sociali, politiche ed economiche destinate a costruire il mito di Roma. In poco tempo si consolida, sulla riva sinistra, la più antica area di sbarco esistente a Roma, situata nel punto di tangenza tra il Tevere e i colli Campidoglio, Palatino e Aventino: una condizione geografica e topografica che fornisce ottime premesse per lo svolgimento delle attività portuali e di scambio che via via occuperanno la pianura fiancheggiante il fiume. Nella trasformazione della zona, la presenza del ponte Sublicio si è rilevata determinante, sia dal punto di vista oggettivo, legato alla sua funzione di collegamento tra le rive, sia da quello sacrale, carico di profondi significati rituali. 
Cosa rappresentò la costruzione di questo ponte sul grande fiume per la città di Roma? Un’opera grandiosa dal punto di vista tecnico e di straordinario prestigio, nella quale si era cimentato tutto il più alto sapere dell’ingegneria del tempo e che permise l'istaurarsi di traffici regolari tra le due sponde, monopolizzandone ancora di più i commerci. Questo ponte fu voluto, secondo la tradizione, dal re Anco Marzio (642-617 a.C.) e la sua particolarità è che era costruito interamente in muratura e veniva sempre riparato senza mai usare il ferro.  Plinio ci racconta nel suo libro, la Naturalis Historia, che il ponte fu il luogo, nel 508, dello scontro tra Orazio Coclite e gli Etruschi comandati dal re Porsenna di Chiusi. Orazio Coclite difese da solo questo ponte, che era l’unico, all'epoca, che metteva in comunicazione le due sponde del Tevere; riuscì ad arrestare l’avanzata degli Etruschi mentre i compagni demolivano il ponte Sublicio per impedire che i nemici potessero oltrepassare il fiume. Quando rimase da abbattere soltanto una piccola parte del ponte, Orazio ordinò ai suoi di mettersi in salvo, rimanendo da solo a combattere. Al termine della demolizione il nostro eroe si gettò nel fiume e riuscì a mettersi in salvo a nuoto. I soldati romani riuscirono a demolire il ponte perché la parte sommitale era di legno. Questa però è la leggenda. Ma perché i romani non volevano usare il ferro? Erano tempi in cui la sacralità si leggeva in ogni cosa. Il fiume Tevere era portatore di vita e di commerci, e considerato al pari di un dio, per cui il ponte che permetteva di passare comodamente da una riva all'altra veniva ritenuto sacro come le acque del fiume che scorrevano sotto di esso. Essendo un elemento sacro furono escluse le parti metalliche in ossequio ad antichi tabù religiosi. All'epoca della costruzione del ponte questo materiale era vietato per la stessa ragione per cui era proibito nella riparazione dei più antichi templi di Roma come quelli della Dea Dia. In quel tempo i Romani erano ancora  moralmente nell'età del bronzo, e provavano una certa repulsione morale per il nuovo metallo. Secondo Varrone, però, questa tecnica costruttiva era dovuta alla necessità di smantellare rapidamente il ponte in caso di attacchi nemici, provenienti in genere dai territori etruschi sulla riva destra del Tevere. Ma come era fatto questo ponte? Sembra accertato che, anche se la struttura era nella parte alta in legno (assi e tavolati o sublicae), i pilastri erano in solida muratura. Il suo nome deriva dall’aggettivo sublicius, che non s’incontra mai altrove, indicava il modo di costruire il ponte. Sublicae in lingua volsca erano le palizzate e specialmente le pile lignee per i ponti. Le travi si sostenevano a vicenda per l’incastro le une dentro le altre; forse erano fermate con dei cavicchi di legno. I sostegni erano sufficientemente alti sulla linea d’acqua da rimanere nella memoria per tutto il medioevo. L’unico che lo ricorda intorno alla fine del ‘400 è Stefano Infessura nel momento in cui riporta la notizia che Sisto IV avrebbe demolito quanto ancora restava dei piloni di pietra per farne palle di cannone da usare contro la famiglia dei Colonna. Molto probabilmente il nostro autore si confonde con un altro ponte, l’Emilio. Che sorgeva accanto al Sublicio. Il ponte era considerato anche un luogo sacro e si pensava, in tempi arcaici, che  coloro che sapevano costruirlo erano ispirati dagli dei. Il costruttore di ponti era il pontifex, il “pontefice” termine adottato poi dalla religione cattolica per indicare il papa. Ma perché questo ponte era considerato sacro? Perché qui si svolgeva il rito degli Argei o dei sexagenarii de ponte. Si  tenevano solenni rituali tanto sull’una quanto sull’altra sponda del fiume, inoltre nei mesi di marzo e di maggio si svolgevano delle suggestive cerimonie religiose degli Argei. La prima parte delle celebrazioni consisteva in una processione solenne da parte dei cittadini in 27 sacrari distribuiti nelle quattro regioni severiane per prendere i 27 pupazzi. La seconda parte della festa aveva luogo il 14 maggio. In questo giorno una lunga processione di vergini romane seguiva la vestale Flaminia, sacerdotessa di Giunone e moglie del sacerdote di Giove, il pontefice massimo. Una volta che la processione era giunta nei pressi del ponte, la vestale Flaminia gettava nel Tevere 27 pupazzi di vimini detti argei; secondo alcuni studiosi si deve ravvisare in questo rito un surrogato di originari sacrifici umani necessari per ringraziarsi il fiume, mentre, secondo altri, si tratta solamente di un rito di purificazione.

Ora la mia passeggiata sta terminando mi affaccio dal muraglione per guardare questo fiume che ha fatto, nel passato, diventare Roma la potenza più importante del mondo e la mia mente corre verso tutta quella letteratura, latina e non solo, che ci parla di esso in maniera grandiosa. Ma mentre sto ammirando il biondo Tevere mi è venuta voglia di un bel caffè e di un cornetto. Il mio sguardo viene catturato da un locale molto carino sito in via di Santa Cecilia il “Noname Caffè”. L’ambiente è molto semplice ma curato in tutti i particolari e il tutto è condito da buona musica e da gente molto simpatica dove tutti chiacchierano con i vicini di tavolo e poi…sento parlare anche in francese cosa che io amo molto. Mentre aspetto la mia seconda colazione Lilly ha fatto amicizia con Tempesta una bassottina di tre mesi e subito si mettono a giocare. Dopo aver chiacchierato con i miei vicini di tavolo è giunta l’ora di tornare a casa per il pranzo. Ma prima di andare al Ghetto dove mi aspetta la mia fantastica cinquecento getto il mio sguardo in una libreria “Griot” dove si vendono libri sull'Africa e sul Medio-Oriente, un pezzettino d’Africa nel cuore di Trastevere. Anche qui Lilly si sente a casa e si accomoda su un pouf. In questa libreria organizzano periodicamente anche incontri con l’autore. Bisogna assolutamente ritornarci!

P.s.: se volete visitare questo angolo di Roma non esitate a prenotarvi, io sarò molto felice di mostrarvelo e di farvi apprezzare i suoi vicoli carichi di storia.
A presto Carla


























































































































 


lunedì 28 settembre 2015

Aspettando il Giubileo della Misericordia


Aspettando il Giubileo della Misericordia

Breve storia del Giubileo





Nella tradizione cattolica il Giubileo è un grande evento religioso. E’ l’anno della remissione dei peccati e delle pene per i peccati, è l’anno della riconciliazione tra i contendenti della conversione e della penitenza sacramentale. Le sue origini si ricollegano all’Antico Testamento. La legge di Mosè aveva fissato per il popolo ebraico un anno particolare: “Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel Paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un Giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà un giubileo; non farete né semina, né mietitura di quanto i campi produrranno da sé: Ne farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è il giubileo, esso vi sarà sacro; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi. In questo anno del giubileo, ciascuno tornerà in possesso del suo” (Libro del Levitico). La tromba con cui si annunciava questo anno particolare era un corno di ariete che in ebraico si dice “Yobel”, da cui deriva la parola Giubileo. La celebrazione di quest’anno comportava tra l’altro, la restituzione delle terre agli antichi proprietari, la remissione dei debiti, la liberazione degli schiavi e il riposo della terra. Ne Nuovo Testamento Gesù si presenta come colui che porta l’Antico Giubileo, essendo venuto a predicare l’anno di grazia del Signore (Isaia).
La storia della Chiesa degli ultimi sette secoli è costellata di Anni Santi: ordinari e straordinari. Quelli ordinari sono legati a scadenze prestabilite. I secondi invece sono stati indetti in occasione di eventi particolari, per ottenere un aiuto divino in momenti difficili della Chiesa o in occasioni solenni, a partire dal XVI secolo.







Il primo Giubileo ordinario fu indetto nel 1300 da Papa Bonifacio VIII della nobile famiglia dei Caetani con la Bolla “Antiquorum Habet Fida Relatio”. Ne fu remota l’ondata di spiritualità, di perdono, di fratellanza che si stava diffondendo in tutta la cristianità in contrapposizione agli odi e alle violenze dominanti in quell’epoca. L’occasione immediata è da riallacciare alla voce, iniziata a circolare nel dicembre del 1299, secondo la quale nell’Anno Santo, i visitatori della Basilica di San Pietro avrebbero ricevuto una “pienissima remissione dei peccati”. L’enorme afflusso di pellegrini a Roma indusse Bonifacio VIII a concedere l’indulgenza per tutto il 1300 e in futuro ogni cento anni. Tra i pellegrini di questo primo Giubileo vanno ricordati: Dante Alighieri, Cimabue e Giotto, Carlo di Valois fratello del re di Francia e sua moglie Caterina. 
Il papa Clemente VI nel 1350 con la Bolla “Unigenitus Dei Filius” fissò che il Giubileo si celebrasse ogni cinquant’anni. Nel 1475 il papa Sisto IV stabilì, per permettere ad ogni generazione di vivere almeno un anno santo, che il Giubileo ordinario fosse cadenzato ogni venticinque anni.
I Giubilei straordinari sono stati indetti in occasione di eventi particolari, per ottenere un aiuto divino in momenti difficili della Chiesa o in occasioni solenni, a partire dal XVI secolo. Celebrati per oltre una novantina di volte nel corso del tempo e di durata variabile. Sono Giubilei straordinari l’Anno Santo del 1933 indetto da Pio IX per celebrare il XIX centenario della redenzione, e quello del 1983 indetto da Giovanni Paolo II per il 1950 anni della redenzione e quello che ci prestiamo a celebrare voluto da Papa Francesco a partire dall’8 dicembre di quest’anno. L’Apertura avverrà in occasione del cinquantesimo anno della chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II nel 1965 e acquista per questo un significato particolare spingendo la Chiesa a continuare l’opera iniziata all’epoca.
PER CELEBRARE QUESTO STRAORDINARIO EVENTO HO PREPARATO UNA SERIE DI ITINERARI STORICO-RELIGIOSI ESTREMAMENTE INTERESSANTI SIA PER QUELLO CHE INSIEME ANDREMO A VISITARE SIA PER I COSTI!!!!





mercoledì 10 giugno 2015

SANTO STEFANO DI SESSANIO

Nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga a 1.200 m sorge Il borgo di S. Stefano di Sessanio che è forse il più suggestivo dell´intero Parco.

Il borgo è considerato tra i più belli d´Abruzzo per i valori ambientali, per il decoro architettonico e per l´omogeneità stilistica.

Il nome Sessanio forse deriva da una corruzione di Sextantio, piccolo insediamento romano situato nei pressi dell´attuale abitato, probabilmente distante sei miglia da un più importante pagus (villaggio) romano.

Sulla porta d´ingresso svetta lo stemma della Signoria di Firenze, che su queste montagne ha lasciato un granello - ma quanto prezioso - della sua raffinata civiltà. Pur non esistendo vere e proprie mura di difesa, il borgo è contornato da edifici senza soluzione di continuità che ebbero la funzione di case-mura, come mostrano anche le rare e piccole finestre.

Percorrendo le tortuose stradine si ammirano abitazioni quattrocentesche, tra cui la Casa del Capitano, e la Torre risalente al Trecento, dalla cui sommità si apre allo sguardo un panorama incantevole che abbraccia le valli del Tirino e dell´Aterno e si spinge sino ai fondali della catena del Sirente e della Maiella. Le prime notizie documentate relative al territorio di Santo Stefano si hanno nel 760, quando il re longobardo Desiderio donò Carapelle Calvisio al monastero di S. Vincenzo al Volturno. Nel 1474 sotto gli Aragonesi, l'abolizione della tassa sugli animali e il riordino dei pascoli di Puglia consentono un forte sviluppo della pastorizia e della transumanza al punto che in quell'anno Santo Stefano di Sessanio, Calascio, Rocca Calascio e Carapelle hanno nella dogana di Puglia ben 94.070 pecore.

Costanza, figlia unica di Innico Piccolomini, cede la Baronia di Carapelle Calvisio a Francesco I de' Medici Granduca di Toscana. Ai Medici, dal 1579, queste terre apparterranno fino al 1743. In questo periodo Santo Stefano raggiunge il massimo splendore come base operativa della Signoria di Firenze per il fiorente commercio della lana "carfagna", qui prodotta e poi lavorata in Toscana e venduta in tutta Europa. Nel XIX secolo con l'unità d'Italia e la privatizzazione delle terre del Tavoliere delle Puglie ha termine l'attività millenaria della transumanza e inizia un processo di decadenza del borgo che vede fortemente ridotta la popolazione a causa del fenomeno dell'emigrazione. Nel XXI secolo l'antico borgo sta avendo una rinascita, grazie al turismo.





martedì 26 maggio 2015

VIA GIULIA


È il lungo rettifilo promosso da papa Giulio II della Rovere nel 1508, realizzato per collegare la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini a Ponte Sisto e quindi, mediante il quale, il centro della città con Trastevere ed il Vaticano, creando un percorso alternativo a via della Lungara.
Via giulia rientra nel primo tratto nel rione Ponte e, nel secondo, e nel secondo, quello cioè più prossimo, a ponte Sisto, nel rione Regola. La ricostruzione del ponte voluta da Papa Sisto IV in occasione del Giubileo del 1475, testimonia il vivacissimo momento culturale che la città viveva alla fine del secolo. Nel tessuto urbano sviluppatosi entro l’ansa sinistra del Tevere vennero tracciati o ricostruiti gli assi di collegamento fra i grandi nodi amministrativi e religiosi fra i quali via Giulia assunse un ruolo di primo piano come perno della riorganizzazione urbana voluta da Giulio II: il ponte, edificato sulle spoglie di un più antico ponte romano, e la nuova strada garantivano un doppio importantissimo legame fra il Vaticano ed il centro della città, punti obbligati di incontri e luoghi ferventi di vita. Via Giulia rappresentava il collegamento diretto con il “Quartiere dei Banchi”. Papa Giulio II volle accrescere ancora di più il ruolo di fulcro urbano di via Giulia facendovi erigere il maestoso palazzo dei Tribunali della Curia. I lavori rimasti incompiuti, furono affidati al Bramante nel 1508. Su via Giulia, che ancora oggi è una delle strade più eleganti della Capitale, i membri di aristocratiche famiglie fecero edificare le proprie prestigiose residenze. Sotto il Papa Leone X si diede l’avvio alla costruzione della chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e qualche anno dopo Papa Paolo III fece aprire via Paola, creando così definitivamente il collegamento con Piazza di Ponte.
La prima significativa fabbrica, posta proprio all’inizio della strada e raccordata alla stessa dalla piccola piazza dell’Oro è la chiesa dei fiorentini residenti a Roma intitolata a San Giovanni Battista. Esistente fin dal XI secolo con il titolo di San Pantaleo, alla fine del quattrocento la chiesa fu concessa alla Compagnia della Pietà che, nel 1508, ottenne da Giulio II il permesso di edificare un nuovo tempio. Undici anni dopo Jacopo Sansovino vinse il concorso bandito per la costruzione, salvo essere sostituito subito dopo da Antonio da Sangallo il Giovane. Dopo una prima interruzione i due architetti ripresero insieme i lavori, per poi bloccarsi nuovamente a causa del sacco di Roma del 1527. Fu solo alla fine del cinquecento che la costruzione potè continuare sotto la direzione di Giacomo della Porta che, seguendo il disegno sangallesco, mise a punto le navate interne. Ai primi del secolo successivo subentrò Carlo Maderno, autore del transetto, della volta interna a botte e della cupola stretta e lunga chiamata dal popolo “confetto succhiato”. La facciata fu realizzata nel 1734 da Alessandro Galilei. All’interno si dispiega una vera e propria antologia dell’arte romana, fra cui spiccano i nomi del Bernini, Algardi e Borromini. Più in là, sempre lungo questa via al numero 82 si incontra una delle più importanti costruzioni dell’edilizia rinascimentale caratterizzata da finestre arcuate in travertino e da tracce dell’antica decorazione pittorica della facciata. Al n. 79 c’è Palazzo Medici Clarelli, detto anche del console di Firenze, realizzato da Antonio da Sangallo il Giovane nella prima metà del cinquecento. Al n. 66 c’è palazzo Sacchetti iniziato anch’esso da Sangallo come propria residenza e poi venduto dal figlio Orazio al cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano. Dopo questo palazzo si giunge presso la chiesa di Santa Maria del Suffragio, opera seicentesca di Carlo Rainaldi, era la sede della Arciconfraternita omonima che si occupava delle opere pie in suffragio dei defunti). Svoltando invia del Gonfalone verso il lungotevere, al n. 29 si trova l’Oratorio del Gonfalone, legato all’omonima Confraternita, dedita all’assistenza dei malati e dei bisognosi. Eretto alla metà del cinquecento sull’antica chiesa di santa Lucia in Xenodochio, il piccolo edificio conserva all’interno un ciclo pittorico ascrivibile a vari artisti, che rappresentano un punto nodale del Manierismo a Roma. Si giunge da qui alle Carceri Nuove al n. 52, commissionate alla metà del seicento da papa Innocenzo X ad Antonio Del Grande, in sostituzione di quelle di Tor di Nona e della Corte Savella, fiancheggiate dalla facciata ottocentesca del palazzo delle Prigioni, opera di Giuseppe Valadier. Dopo l’incorocio con via dei Banchi Vecchi  s’incontra la Casa della Confraternita delle Piaghe di Cristo, che ingloba la seicentesca chiesa di San Filippo Neri, restaurata nel 1728 da Filippo Raguzzini, poi al n. 38 si incontra la chiesa di Santo Spirito dei Napoletani, riedificata dall’omonima confraternita nel 1584 sulle spoglie della chiesa di Sant’Aurea. Dopo il palazzo del Collegio Spagnolo, al n. 151, si trova la Chiesa di Santa Caterina da Siena, eretta da Paolo Posi nel 1762. Più avanti c’è uno dei tratti più suggestivi della via caratterizzato dalla presenza di un arco che unisce palazzo Farnese ai cosiddetti camerini farnesiani . Prima di giungere nei pressi dell’arco c’è palazzo Falconieri la cui facciata è opera del Borrimini. Accanto a questo palazzo si erge la chiesa di Santa Maria dell’Orazione e Morte  realizzata da Ferdinando Fuga nel 1737. La confraternita si occupava di dare degna sepoltura ai morti abbandonati e di suffragarne l’anima con attività di preghiera . Via giulia termina in piazza San Vincenzo Pallotti che si apre in corrispondenza della struttura quattrocentesca di Ponte Sisto.