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mercoledì 17 febbraio 2016

Sulle tracce del ponte sublicio

Appena mi sono svegliata ho aperto la finestra e ho visto che c’è un sole stupendo e la temperatura è piacevole. Proprio la giornata ideale per fare una passeggiata alla scoperta dei vicoli di Roma, ricchi di storie e leggende. Dopo una bella colazione composta da una spremuta di limone con tisana di zenzero, chiodi di garofano e cannella e una bella tazza di caffè americano accompagnata dai miei mitici pancakes, mi vesto e decido di andare a vedere il luogo dove doveva sorgere il primo ponte romano, il Sublicio, ponte carico di leggende e di storia. Da oggi in poi ad accompagnarmi in queste passeggiate ci sarà, oltre alla mia macchinetta fotografica, una Canon, regalatami nel 2008 da mio fratello per farsi perdonare il fatto di aver perso la mia durante una sua gita in montagna, la mia favolosa Lilly una cagnolina di 3 mesi e mezzo che dal 14 dicembre del 2015 vive con me. L’ho presa presso il canile municipale de L’Aquila. E’ una monella incredibile ma adora camminare e perdersi per i vicoli della città eterna. E’ proprio la degna cagnolina di un’archeologa! Per arrivare in centro, come ormai faccio ogni domenica, prendo la mitica cinquecento rossa di Enjoy e mi dirigo alla volta di via del Porto, all'estremità settentrionale del complesso di San Michele a Ripa, nel cuore del quartiere Trastevere, a cui dedicherò una pagina a parte. Proprio in questa via, secondo Carandini ed altri archeologi, sorgeva il primo ponte romano il Sublicio di cui, però, oggi non resta più alcuna traccia perché i suoi resti furono distrutti nel 1887 per la costruzione dei muraglioni del fiume. Tuttavia, affacciandosi dalla spalletta del ponte, verso Ripa grande, di fronte al luogo dove sorgeva il porto di Ripa, si possono notare ancora sporadici resti. Questo, come quasi sempre nellarcheologia, non lo possiamo affermare con assoluta certezza, in quanto non ci è giunto nulla che possa indicare la sua esatta ubicazione ma quasi certamente doveva trovarsi in questa zona, nelle immediate vicinanze del pons Aemilius. Nel De Regionibus Urbis Romae, detto di Sextus Rufus, nel momento in cui si parla della undicesima regione urbana dice: Salinae, porta Trigemina, Aedes Portumni ad pontem Sublicium, quindi, il santuario di Portunus può essere localizzato in rapporto con il ponte Sublicio. Il luogo dove sorge il foro Boario in età romana offriva tanti vantaggi ed era facilmente controllabile dal Palatino e permetteva di raggiungere questo colle molto facilmente senza dover attraversare i fiumiciattoli dai bordi fangosi che vi scorrevano prima della costruzione delle cloache Maxima e circi Maximi. Le due strade più antiche di questa zona, il vicus Tuscus e le Scalae Caci convergevano in questo punto; la prima poteva essere attraversata dai carri mentre la seconda solo dai pedoni e dalle bestie da soma. Il Tevere assume lentamente la funzione di riferimento ideale e di testimone delle mutazioni e dei processi trasformativi che si svolgono sulle sue sponde, equilibrando e traversando, da una riva all'altra, dinamiche sociali, politiche ed economiche destinate a costruire il mito di Roma. In poco tempo si consolida, sulla riva sinistra, la più antica area di sbarco esistente a Roma, situata nel punto di tangenza tra il Tevere e i colli Campidoglio, Palatino e Aventino: una condizione geografica e topografica che fornisce ottime premesse per lo svolgimento delle attività portuali e di scambio che via via occuperanno la pianura fiancheggiante il fiume. Nella trasformazione della zona, la presenza del ponte Sublicio si è rilevata determinante, sia dal punto di vista oggettivo, legato alla sua funzione di collegamento tra le rive, sia da quello sacrale, carico di profondi significati rituali. 
Cosa rappresentò la costruzione di questo ponte sul grande fiume per la città di Roma? Un’opera grandiosa dal punto di vista tecnico e di straordinario prestigio, nella quale si era cimentato tutto il più alto sapere dell’ingegneria del tempo e che permise l'istaurarsi di traffici regolari tra le due sponde, monopolizzandone ancora di più i commerci. Questo ponte fu voluto, secondo la tradizione, dal re Anco Marzio (642-617 a.C.) e la sua particolarità è che era costruito interamente in muratura e veniva sempre riparato senza mai usare il ferro.  Plinio ci racconta nel suo libro, la Naturalis Historia, che il ponte fu il luogo, nel 508, dello scontro tra Orazio Coclite e gli Etruschi comandati dal re Porsenna di Chiusi. Orazio Coclite difese da solo questo ponte, che era l’unico, all'epoca, che metteva in comunicazione le due sponde del Tevere; riuscì ad arrestare l’avanzata degli Etruschi mentre i compagni demolivano il ponte Sublicio per impedire che i nemici potessero oltrepassare il fiume. Quando rimase da abbattere soltanto una piccola parte del ponte, Orazio ordinò ai suoi di mettersi in salvo, rimanendo da solo a combattere. Al termine della demolizione il nostro eroe si gettò nel fiume e riuscì a mettersi in salvo a nuoto. I soldati romani riuscirono a demolire il ponte perché la parte sommitale era di legno. Questa però è la leggenda. Ma perché i romani non volevano usare il ferro? Erano tempi in cui la sacralità si leggeva in ogni cosa. Il fiume Tevere era portatore di vita e di commerci, e considerato al pari di un dio, per cui il ponte che permetteva di passare comodamente da una riva all'altra veniva ritenuto sacro come le acque del fiume che scorrevano sotto di esso. Essendo un elemento sacro furono escluse le parti metalliche in ossequio ad antichi tabù religiosi. All'epoca della costruzione del ponte questo materiale era vietato per la stessa ragione per cui era proibito nella riparazione dei più antichi templi di Roma come quelli della Dea Dia. In quel tempo i Romani erano ancora  moralmente nell'età del bronzo, e provavano una certa repulsione morale per il nuovo metallo. Secondo Varrone, però, questa tecnica costruttiva era dovuta alla necessità di smantellare rapidamente il ponte in caso di attacchi nemici, provenienti in genere dai territori etruschi sulla riva destra del Tevere. Ma come era fatto questo ponte? Sembra accertato che, anche se la struttura era nella parte alta in legno (assi e tavolati o sublicae), i pilastri erano in solida muratura. Il suo nome deriva dall’aggettivo sublicius, che non s’incontra mai altrove, indicava il modo di costruire il ponte. Sublicae in lingua volsca erano le palizzate e specialmente le pile lignee per i ponti. Le travi si sostenevano a vicenda per l’incastro le une dentro le altre; forse erano fermate con dei cavicchi di legno. I sostegni erano sufficientemente alti sulla linea d’acqua da rimanere nella memoria per tutto il medioevo. L’unico che lo ricorda intorno alla fine del ‘400 è Stefano Infessura nel momento in cui riporta la notizia che Sisto IV avrebbe demolito quanto ancora restava dei piloni di pietra per farne palle di cannone da usare contro la famiglia dei Colonna. Molto probabilmente il nostro autore si confonde con un altro ponte, l’Emilio. Che sorgeva accanto al Sublicio. Il ponte era considerato anche un luogo sacro e si pensava, in tempi arcaici, che  coloro che sapevano costruirlo erano ispirati dagli dei. Il costruttore di ponti era il pontifex, il “pontefice” termine adottato poi dalla religione cattolica per indicare il papa. Ma perché questo ponte era considerato sacro? Perché qui si svolgeva il rito degli Argei o dei sexagenarii de ponte. Si  tenevano solenni rituali tanto sull’una quanto sull’altra sponda del fiume, inoltre nei mesi di marzo e di maggio si svolgevano delle suggestive cerimonie religiose degli Argei. La prima parte delle celebrazioni consisteva in una processione solenne da parte dei cittadini in 27 sacrari distribuiti nelle quattro regioni severiane per prendere i 27 pupazzi. La seconda parte della festa aveva luogo il 14 maggio. In questo giorno una lunga processione di vergini romane seguiva la vestale Flaminia, sacerdotessa di Giunone e moglie del sacerdote di Giove, il pontefice massimo. Una volta che la processione era giunta nei pressi del ponte, la vestale Flaminia gettava nel Tevere 27 pupazzi di vimini detti argei; secondo alcuni studiosi si deve ravvisare in questo rito un surrogato di originari sacrifici umani necessari per ringraziarsi il fiume, mentre, secondo altri, si tratta solamente di un rito di purificazione.

Ora la mia passeggiata sta terminando mi affaccio dal muraglione per guardare questo fiume che ha fatto, nel passato, diventare Roma la potenza più importante del mondo e la mia mente corre verso tutta quella letteratura, latina e non solo, che ci parla di esso in maniera grandiosa. Ma mentre sto ammirando il biondo Tevere mi è venuta voglia di un bel caffè e di un cornetto. Il mio sguardo viene catturato da un locale molto carino sito in via di Santa Cecilia il “Noname Caffè”. L’ambiente è molto semplice ma curato in tutti i particolari e il tutto è condito da buona musica e da gente molto simpatica dove tutti chiacchierano con i vicini di tavolo e poi…sento parlare anche in francese cosa che io amo molto. Mentre aspetto la mia seconda colazione Lilly ha fatto amicizia con Tempesta una bassottina di tre mesi e subito si mettono a giocare. Dopo aver chiacchierato con i miei vicini di tavolo è giunta l’ora di tornare a casa per il pranzo. Ma prima di andare al Ghetto dove mi aspetta la mia fantastica cinquecento getto il mio sguardo in una libreria “Griot” dove si vendono libri sull'Africa e sul Medio-Oriente, un pezzettino d’Africa nel cuore di Trastevere. Anche qui Lilly si sente a casa e si accomoda su un pouf. In questa libreria organizzano periodicamente anche incontri con l’autore. Bisogna assolutamente ritornarci!

P.s.: se volete visitare questo angolo di Roma non esitate a prenotarvi, io sarò molto felice di mostrarvelo e di farvi apprezzare i suoi vicoli carichi di storia.
A presto Carla


























































































































 


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