Appena mi sono svegliata ho aperto la finestra e ho visto
che c’è un sole stupendo e la temperatura è piacevole. Proprio la giornata
ideale per fare una passeggiata alla scoperta dei vicoli di Roma, ricchi di
storie e leggende. Dopo una bella colazione composta da una spremuta di limone
con tisana di zenzero, chiodi di garofano e cannella e una bella tazza di caffè
americano accompagnata dai miei mitici pancakes, mi vesto e decido di andare a
vedere il luogo dove doveva sorgere il primo ponte romano, il Sublicio, ponte
carico di leggende e di storia. Da oggi in poi ad accompagnarmi in queste
passeggiate ci sarà, oltre alla mia macchinetta fotografica, una Canon,
regalatami nel 2008 da mio fratello per farsi perdonare il fatto di aver perso
la mia durante una sua gita in montagna, la mia favolosa Lilly una cagnolina di
3 mesi e mezzo che dal 14 dicembre del 2015 vive con me. L’ho presa presso il
canile municipale de L’Aquila. E’ una monella incredibile ma adora camminare e
perdersi per i vicoli della città eterna. E’ proprio la degna cagnolina di
un’archeologa! Per arrivare in centro, come ormai faccio ogni domenica, prendo
la mitica cinquecento rossa di Enjoy e mi dirigo alla volta di via del Porto,
all'estremità settentrionale del complesso di San Michele a Ripa, nel cuore del
quartiere Trastevere, a cui dedicherò una pagina a parte. Proprio in questa via,
secondo Carandini ed altri archeologi, sorgeva il primo ponte romano il
Sublicio di cui, però, oggi non resta più alcuna traccia perché i suoi resti
furono distrutti nel 1887 per la costruzione dei muraglioni del fiume. Tuttavia,
affacciandosi dalla spalletta del ponte, verso Ripa grande, di fronte al luogo
dove sorgeva il porto di Ripa, si possono notare ancora sporadici resti. Questo,
come quasi sempre nellarcheologia, non lo possiamo affermare con assoluta
certezza, in quanto non ci è giunto nulla che possa indicare la sua esatta
ubicazione ma quasi certamente doveva trovarsi in questa zona, nelle immediate
vicinanze del pons Aemilius. Nel De Regionibus Urbis Romae, detto di Sextus
Rufus, nel momento in cui si parla della undicesima regione urbana dice:
Salinae, porta Trigemina, Aedes Portumni ad pontem Sublicium, quindi, il
santuario di Portunus può essere localizzato in rapporto con il ponte Sublicio.
Il luogo dove sorge il foro Boario in età romana offriva tanti vantaggi ed era
facilmente controllabile dal Palatino e permetteva di raggiungere questo colle
molto facilmente senza dover attraversare i fiumiciattoli dai bordi fangosi che
vi scorrevano prima della costruzione delle cloache Maxima e circi Maximi. Le
due strade più antiche di questa zona, il vicus Tuscus e le Scalae Caci
convergevano in questo punto; la prima poteva essere attraversata dai carri
mentre la seconda solo dai pedoni e dalle bestie da soma. Il Tevere assume
lentamente la funzione di riferimento ideale e di testimone delle mutazioni e
dei processi trasformativi che si svolgono sulle sue sponde, equilibrando e
traversando, da una riva all'altra, dinamiche sociali, politiche ed economiche
destinate a costruire il mito di Roma. In poco tempo si consolida, sulla riva
sinistra, la più antica area di sbarco esistente a Roma, situata nel punto di
tangenza tra il Tevere e i colli Campidoglio, Palatino e Aventino: una
condizione geografica e topografica che fornisce ottime premesse per lo
svolgimento delle attività portuali e di scambio che via via occuperanno la
pianura fiancheggiante il fiume. Nella trasformazione della zona, la presenza
del ponte Sublicio si è rilevata determinante, sia dal punto di vista
oggettivo, legato alla sua funzione di collegamento tra le rive, sia da quello
sacrale, carico di profondi significati rituali.
Cosa rappresentò la costruzione di questo ponte sul grande
fiume per la città di Roma? Un’opera grandiosa dal punto di vista tecnico e di
straordinario prestigio, nella quale si era cimentato tutto il più alto sapere
dell’ingegneria del tempo e che permise l'istaurarsi di traffici regolari tra
le due sponde, monopolizzandone ancora di più i commerci. Questo ponte fu
voluto, secondo la tradizione, dal re Anco Marzio (642-617 a.C.) e la sua
particolarità è che era costruito interamente in muratura e veniva sempre
riparato senza mai usare il ferro. Plinio
ci racconta nel suo libro, la Naturalis Historia, che il ponte fu il luogo, nel
508, dello scontro tra Orazio Coclite e gli Etruschi comandati dal re Porsenna
di Chiusi. Orazio Coclite difese da solo questo ponte, che era l’unico,
all'epoca, che metteva in comunicazione le due sponde del Tevere; riuscì ad
arrestare l’avanzata degli Etruschi mentre i compagni demolivano il ponte
Sublicio per impedire che i nemici potessero oltrepassare il fiume. Quando
rimase da abbattere soltanto una piccola parte del ponte, Orazio ordinò ai suoi
di mettersi in salvo, rimanendo da solo a combattere. Al termine della
demolizione il nostro eroe si gettò nel fiume e riuscì a mettersi in salvo a
nuoto. I soldati romani riuscirono a demolire il ponte perché la parte
sommitale era di legno. Questa però è la leggenda. Ma perché i romani non
volevano usare il ferro? Erano tempi in cui la sacralità si leggeva in ogni
cosa. Il fiume Tevere era portatore di vita e di commerci, e considerato al
pari di un dio, per cui il ponte che permetteva di passare comodamente da una
riva all'altra veniva ritenuto sacro come le acque del fiume che scorrevano
sotto di esso. Essendo un elemento sacro furono escluse le parti metalliche in
ossequio ad antichi tabù religiosi. All'epoca della costruzione del ponte
questo materiale era vietato per la stessa ragione per cui era proibito nella
riparazione dei più antichi templi di Roma come quelli della Dea Dia. In quel
tempo i Romani erano ancora moralmente
nell'età del bronzo, e provavano una certa repulsione morale per il nuovo
metallo. Secondo Varrone, però, questa tecnica costruttiva era dovuta alla
necessità di smantellare rapidamente il ponte in caso di attacchi nemici,
provenienti in genere dai territori etruschi sulla riva destra del Tevere. Ma
come era fatto questo ponte? Sembra accertato che, anche se la struttura era
nella parte alta in legno (assi e tavolati o sublicae), i pilastri erano in
solida muratura. Il suo nome deriva dall’aggettivo sublicius, che non
s’incontra mai altrove, indicava il modo di costruire il ponte. Sublicae in
lingua volsca erano le palizzate e specialmente le pile lignee per i ponti. Le
travi si sostenevano a vicenda per l’incastro le une dentro le altre; forse
erano fermate con dei cavicchi di legno. I sostegni erano sufficientemente alti
sulla linea d’acqua da rimanere nella memoria per tutto il medioevo. L’unico
che lo ricorda intorno alla fine del ‘400 è Stefano Infessura nel momento in
cui riporta la notizia che Sisto IV avrebbe demolito quanto ancora restava dei
piloni di pietra per farne palle di cannone da usare contro la famiglia dei
Colonna. Molto probabilmente il nostro autore si confonde con un altro ponte,
l’Emilio. Che sorgeva accanto al Sublicio. Il ponte era considerato anche un
luogo sacro e si pensava, in tempi arcaici, che
coloro che sapevano costruirlo erano ispirati dagli dei. Il costruttore
di ponti era il pontifex, il “pontefice” termine adottato poi dalla religione
cattolica per indicare il papa. Ma perché questo ponte era considerato sacro?
Perché qui si svolgeva il rito degli Argei o dei sexagenarii de ponte. Si tenevano solenni rituali tanto sull’una
quanto sull’altra sponda del fiume, inoltre nei mesi di marzo e di maggio si
svolgevano delle suggestive cerimonie religiose degli Argei. La prima parte
delle celebrazioni consisteva in una processione solenne da parte dei cittadini
in 27 sacrari distribuiti nelle quattro regioni severiane per prendere i 27
pupazzi. La seconda parte della festa aveva luogo il 14 maggio. In questo
giorno una lunga processione di vergini romane seguiva la vestale Flaminia,
sacerdotessa di Giunone e moglie del sacerdote di Giove, il pontefice massimo.
Una volta che la processione era giunta nei pressi del ponte, la vestale Flaminia
gettava nel Tevere 27 pupazzi di vimini detti argei; secondo alcuni studiosi si
deve ravvisare in questo rito un surrogato di originari sacrifici umani
necessari per ringraziarsi il fiume, mentre, secondo altri, si tratta solamente
di un rito di purificazione.
Ora la mia passeggiata sta terminando mi affaccio dal
muraglione per guardare questo fiume che ha fatto, nel passato, diventare Roma
la potenza più importante del mondo e la mia mente corre verso tutta quella
letteratura, latina e non solo, che ci parla di esso in maniera grandiosa. Ma
mentre sto ammirando il biondo Tevere mi è venuta voglia di un bel caffè e di
un cornetto. Il mio sguardo viene catturato da un locale molto carino sito in
via di Santa Cecilia il “Noname Caffè”. L’ambiente è molto semplice ma curato
in tutti i particolari e il tutto è condito da buona musica e da gente molto
simpatica dove tutti chiacchierano con i vicini di tavolo e poi…sento parlare
anche in francese cosa che io amo molto. Mentre aspetto la mia seconda colazione
Lilly ha fatto amicizia con Tempesta una bassottina di tre mesi e subito si
mettono a giocare. Dopo aver chiacchierato con i miei vicini di tavolo è giunta
l’ora di tornare a casa per il pranzo. Ma prima di andare al Ghetto dove mi
aspetta la mia fantastica cinquecento getto il mio sguardo in una libreria “Griot”
dove si vendono libri sull'Africa e sul Medio-Oriente, un pezzettino d’Africa
nel cuore di Trastevere. Anche qui Lilly si sente a casa e si accomoda su un
pouf. In questa libreria organizzano periodicamente anche incontri con
l’autore. Bisogna assolutamente ritornarci!
P.s.: se volete visitare questo angolo di Roma non esitate a
prenotarvi, io sarò molto felice di mostrarvelo e di farvi apprezzare i suoi
vicoli carichi di storia.
A presto Carla